I PRESUPPOSTI CONCETTUALI:

(Segue da: I bisogni relazionali)

3. Il circolo vizioso tra solitudine affettiva e isolamento sociale

Già nel 1959 Frieda Fromm-Reichmann aveva evidenziato come il senso di solitudine sia connotato da una congerie di vissuti depressivi – di sconforto e risentimento verso gli altri e se stessi − che facilmente innescano l’apatia, il ritiro, l’isolamento. E ormai non si contano più tutte le ricerche che confermano lo stretto rapporto tra solitudine e depressione (v.  "Solitudine, lutto, depressione" ), nonchè tra la solitudine e tutta una serie di patologie d’ordine organico.

Non è chiaro se la solitudine affettiva generi la depressione, e poi la depressione generi l’isolamento sociale, o se il vuoto affettivo provochi insieme sia depressione sia isolamento. In ogni caso, sembra che la solitudine affettiva si coniughi  con la solitudine sociale più di quanto Robert Weiss (1973) fosse disposto ad ammettere. Siamo infatti nel terzo quadrante del diagramma precedentemente illustrato (v. I bisogni relazionali: fig.1), dove le due forme di solitudine finiscono per assommarsi e interagire.

Se, tuttavia, le due solitudini interagiscono, quale delle due genera l’altra?

È indubbio che la depressione (come patologia psichiatrica, ma anche solo come vissuto transitorio del nostro andamento emozionale ciclotimico) porti spesso al ritiro dagli altri, e dunque all’isolamento, ma vale anche il viceversa: un isolamento sociale protratto finisce normalmente per generare senso di solitudine e depressione.

Il deserto può anche ispirare all’eremita la comunione con Dio e col mondo, ma la maggior parte degli esseri umani ha piuttosto dei bisogni sociali che esigono soddisfazione. Non siamo cactus, che si ergono autistici tra le dune di sabbia. Siamo il chicco di grano di una spiga, “l’onda che all’onda prende la mano”, il cristallo che si abbraccia ad altri cristalli per farsi fiocco di neve… Quando ci manca questo senso d’appartenenza a qualcosa che dia senso alla vita, subiamo un danno. Allora anche i rapporti personali più intimi ne vengono spesso travolti. Chi sta male con se stesso perché non trova una propria collocazione nel mondo, fa purtroppo scontare al partner, ai figli, o agli amici la propria sofferenza. E finisce per allontanarli.

È dunque proprio sul terzo quadrante del precedente diagramma (v. I bisogni relazionali: fig.1) che si focalizza la nostra attenzione, perché è qui che solitudine affettiva e solitudine sociale sono embricate tra loro in una sorta di circolo vizioso.

Questa interazione perversa tra le due solitudini configura anche la forma “più grave” di solitudine. Quando non si riesce a spezzare questo circolo vizioso, è da qui che può svilupparsi una vera e propria forma di depressione, e ogni altra sorta di malattie. È qui che si affonda, perché non c’è nessun appiglio. La moglie islamica che, nel nostro Paese, si deve scontrare con mille ostracismi per il solo fatto di portare il velo, può comunque trovare sostegno e conforto nella sua famiglia (quarto quadrante). Ma la quarantenne nubile che ha trascorso i suoi ultimi dieci anni a dividersi tra un’attività lavorativa frustrante e l’assistenza ai genitori anziani, malati di cancro o affetti da qualche patologia neurologica, come colmerà il vuoto della loro assenza – quando alla fine le verranno a mancare – se non ha né un partner né l’appartenenza a una rete relazionale di sostegno (terzo quadrante)?

Si usa dire che si può piangere in Roll-Royce, ma è sempre meglio che piangere in una Cinquecento. Nel nostro caso, voglio solo suggerire che è meglio mancare di un partner − o di una famiglia − quando si è coinvolti nella professione, nell’impegno politico o culturale, nel volontariato, o anche solo nei rapporti virtuali offerti dal mondo di internet (secondo quadrante).  Si soffre lo stesso, ma si soffre di meno. Allo stesso modo, è meglio sentirsi esclusi dall’ambiente in cui si è inseriti, ma trovare a casa delle calde braccia che confortino, o il sorriso del proprio bambino (quarto quadrante), piuttosto che essere privi dell’una cosa e dell’altra (terzo quadrante).

Bisogni d’appartenenza e bisogni d’attaccamento non mi sembrano quindi due dimensioni totalmente indipendenti, ma solo due forme in cui si esprime una categoria di bisogni di portata più ampia: i bisogni relazionali dell’essere umano. Entro questa sovracategoria – all’opposto di quanto sosteneva Weiss – credo che sussista anche un’effettiva possibilità di “compensazione” in una direzione o nell’altra (affetti o socialità).

Non si tratta, con questo, di proporre semplicemente alla nostra donna in divieto d'amore (la neoseparata, la vedova, o la single che cerca un partner che non trova) di iscriversi a club e associazioni per incrementare le proprie frequentazioni sociali. Ben venga, se si sente di farlo. Ma spesso proprio il vissuto di solitudine affettiva rende ancora più frustranti questi ritrovi occasionali,  troppo superficiali per compensare gli affetti mancanti.

Concordo pienamente con Weiss sul fatto che un'agenda piena di impegni sociali contribuisce poco ad alleviare la solitudine affettiva, finché si tratta esclusivamente di pubbliche relazioni, più di forma che di sostanza. Esiste tuttavia un altro obiettivo a breve termine, facilmente traguardabile, che può compensare la carenza, ed essere d'aiuto a tutti i livelli. E' questo che intendo proporre sia come consiglio generale, sia come specifico obiettivo del Percorso guidato che viene qui presentato a parte (v. Il Percorso Guidato).

(Proseguiself-disclosure)

 

 

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