I CRITERI OPERATIVI

4. Approccio individuale

Quando si parla di solitudine sembra quasi scontato che qualsiasi intervento sul problema debba coinvolgere la persona a livello del tessuto sociale, gruppi, opportunità di socializzazione. È ciò che viene comunemente messo in pratica per l’anziano solo (centri ricreativi, onlus di assistenza, ecc…), o per affrontare i problemi d’integrazione degli immigrati. E' anche la soluzione proposta dalle varie community per single, che raccolgono molti aderenti soprattutto nelle grandi città. Ma abbiamo già visto come “solitudine sociale” e “solitudine affettiva” siano distinguibili (Weiss, 1973; v. Solitudine affettiva e solitudine sociale   ), per quanto non del tutto indipendenti.

Certo, anche i gruppi di auto-aiuto sul problema della solitudine, organizzati in alcune realtà territoriali ad opera di associazioni di volontariato (es. www.stopsolitudine.com), possono assolvere una preziosa funzione di sostegno.  Quello che resta da capire è il modo in cui sono percepiti dai potenziali destinatari dell’intervento, ovvero se il fatto di ispirarsi a dichiarati principi di solidarietà sociale non scoraggi a priori il possibile utente dal farvi ricorso, perché li considera una sorta di risorsa estrema, troppo lesiva della propria autostima.

Soprattutto per quella moltitudine di casi che non ricadono entro categorie sociali già di per sé emarginate (anziani, extracomunitari, ecc…), accanto alla soluzione gruppale della socializzazione indotta, sussiste – con pari dignità ed efficacia – anche una soluzione individuale, che disinneschi l’eventuale isolamento e temperi le carenze d’amore a partire dall’instaurarsi di una relazione professionale individualizzata, sufficientemente “ricca” sul piano emotivo e cognitivo da stimolare nuove sperimentazioni di sé in relazione agli altri. 

Un intervento che operi sul problema della solitudine a livello individuale, nella riservatezza di un rapporto professionale privato, anche se manca di offrire un confronto diretto con le altre “persone sole”, e dunque un’immediata opportunità di socializzazione, ha il pregio di presentarsi come supporto strategico a un problema circoscritto, senza imporre all’interessata la discutibile appartenenza a un gruppo che rischia di apparire soltanto come “il gruppo delle sfigate”.

Va ricordato, infatti, che non è l’appartenenza a un gruppo tout court, ciò che tempera il vissuto d’isolamento o di solitudine (essendo peraltro ben noti i problemi generati da ogni forma di “ghettizzazione”), visto che ci si può sentire soli anche in mezzo agli altri. Dieci “donne sole” riunite insieme a confrontare le loro rispettive solitudini non fanno necessariamente un gruppo di amiche, ma solo un piccolo “ghetto” di solitarie sofferenti, che probabilmente metteranno in gioco con le altre partecipanti tutte le loro eventuali difficoltà relazionali. Difficile pensare che in questo quadro il vissuto di solitudine e il livello di autostima individuale ne traggano automaticamente grande beneficio.

Se cioè il gruppo è indubbiamente una risorsa preziosa rispetto a uno svariato numero di  problematiche (alcolismo, tossicodipendenze, ripercussioni psicologiche di una mastectomia, ecc…), vale la pena di soffermarsi sul fatto che si tratta di un’utile modalità d’intervento in situazioni in cui il problema è di tipo individuale, e il gruppo costituisce appunto il mezzo per condividerlo con altri. Invece, nel nostro caso, il problema stesso (per quanto intrecciato a problematiche individuali) è in primo luogo un problema relazionale, ovvero consiste nella difficoltà a instaurare/mantenere relazioni importanti, che temperino il vuoto affettivo.

Trattare col gruppo proprio un disagio relazionale equivale a una terapia d’urto che getti in mare chi ha paura dell’acqua. E' in qualche modo paradossale pretendere che chi ha problemi di relazione si "tuffi" in un gruppo, dove i suoi problemi si paleseranno immediatamente. Forse un approccio graduale, che preveda  (in metafora) di cominciare a confrontarsi gradualmente con l’acqua in condizioni protette, può sortire miglior risultato. 

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L'abbandono

La perdita di una persona cara genera un senso di vuoto e di privazione, che si connoterà con vissuti di nostalgia e rimpianto nel caso di suo abbandono involontario (morte), o piuttosto di delusione e rancore se l’abbandono è stato volontario.  Il rimpianto scoraggia i nuovi investimenti affettivi, nella misura in cui si teme che nuove relazioni non possano reggere il confronto con quella perduta e idealizzata. Viceversa il senso di tradimento di chi si è sentita volontariamente abbandonata trattiene dal concedere la propria fiducia ad altri, nel timore di incorrere in nuove ferite e delusioni.

Sentirsi incomprese

Prevale un vissuto di estraneità e disagio rispetto alle persone circostanti, che vengono variamente considerate indifferenti, diverse, egoiste, o comunque motivate da valori incompatibili con i propri, con la conseguente difficoltà a stabilire con loro qualsiasi rapporto di fiducia.

La timidezza

La persona attribuisce fondamentalmente a se stessa la responsabilità dei propri insuccessi relazionali ed è scoraggiata dal mettere in atto nuovi tentativi di contatto con gli altri perché troppo concentrata sulle proprie (vere o presunte) inadeguatezze.

La diffidenza

L’inadeguatezza non è attribuita a sé ma agli altri, con l’aggiunta di sospettare sistematicamente in tutti delle intenzioni malevole, che li indurrebbero ad approfittarsi di qualsiasi confidenza o segno di fiducia.

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Contatti

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