Amor mancato e amor perduto: nubili, separate, vedove
13.04.2014 00:00
Tennyson scriveva: “Meglio aver amato e perduto che non aver mai amato”. Invece Dante ha fatto dire alla sua Francesca da Rimini: “Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria”. Entrambe le citazioni sono ormai divenute dei “detti” di uso comune, che tuttavia – come spesso succede − si contraddicono a vicenda.
Stabilire se sia maggiore la sofferenza che proviene da una solitudine contrassegnata dalla perdurante mancanza di affetti importanti rispetto a una solitudine contrassegnata dalla perdita dei medesimi rischia peraltro di trasformarsi in una questione di lana caprina (i.e. misero trofeo quello da attribuirsi al maggior dolore!). Mentre vi sono autori che mettono in dubbio la stessa opportunità di distinguere tra “solitudine da perdita” e "solitudine da mancanza", numerose ricerche attestano tuttavia come la perdita di un oggetto d’amore prima presente (lutto o separazione), costringa la persona ad affrontare anche tutto l’aggravio del riadattamento a una situazione peggiorativa.
Che tuttavia questo renda in assoluto più dolorosa la sua solitudine rispetto a quella della donna single che ha trascorso la vita a cercare un partner mai trovato, soffrendo spesso per quel “dito accusatore” di cui ci parla Jean-Claude Kauffmann (J-C. Kaufmann. Donne sole e principi azzurri, Giunti, Firenze, 2012), ovvero sentendosi una persona “sbagliata” rispetto alle attese sociali che la vorrebbero invece moglie e madre, resta a mio avviso indecidibile. Troppe sono infatti le componenti soggettive che rilevano a livello psicologico, e che impediscono le facili categorizzazioni.
Le aspettative individuali, il livello di autostima e il tipo di attribuzione causale che viene adottata per spiegare la “perdita” o la “mancanza” (cause interne e cause esterne, cause stabili e cause contingenti), oltre a una moltitudine di fattori di ordine socio-economico e culturale, sembrano svolgere un ruolo decisivo nel determinare gradi diversi di disagio.
Sicuramente, a differenza delle cosiddette “single”, o di quelle donne sposate che sperimentano la solitudine entro il matrimonio, le vedove e le separate/divorziate devono confrontarsi con un fattore traumatico estremamente difficile da gestire (la perdita del partner), che può scatenare alternativamente rabbia e colpevolizzazione esterna, oppure depressione e autocolpevolizzazione.
Sembrerebbe quindi davvero più difficile fronteggiare la perdita repentina dell’oggetto d’amore (per morte improvvisa del coniuge o per un suo inaspettato abbandono del tetto coniugale) rispetto allo stillicidio di una mancanza d’amore che perdura da anni, e con la quale si è – forse − in certa misura imparato a convivere. Ma questi sono solo casi estremi. Non soltanto perché le separazioni intervengono normalmente dopo un periodo di conflitto e di crisi coniugale, che può dunque “preparare” alla perdita finale, ma perché nemmeno la morte avviene sempre in modo così inaspettato, basti pensare a quelle donne che si ritrovano vedove dopo aver lungamente assistito il marito nella sua malattia terminale o in quel danno neurologico che l’aveva ormai trasformato in uno sconosciuto rispetto all’uomo che era (es. ictus cerebrale, morbo d’Alzheimer). In questi casi, il riadattamento che ne consegue, pur mantenendo il suo connotato doloroso, può perfino trasformarsi rapidamente nella fine di una lunga tribolazione.
Le indagini psicosociali che tentano di stabilire a quale categoria dello stato civile (“non sposati” piuttosto che coniugati, vedovi e divorziati) attribuire la “medaglia" della solitudine possono quindi fornire utili statistiche su cui riflettere, e magari sollecitare spunti di riflessione sugli effetti positivi del matrimonio (che sembra correlato ai livelli più bassi di solitudine), o sul peso relativo della “mancanza” e della “perdita”, ma ci dicono poco di più, come tutte le generalizzazioni. Anche le vedove e le divorziate possono affrontare la perdita del partner in modo completamente diverso a seconda della presenza o assenza (i.e. mancanza) di altri affetti importanti, che sostengano psicologicamente nel momento del lutto o della separazione (genitori, fratelli e sorelle, figli, parenti, amicizie importanti).
L’amore non attiene esclusivamente al rapporto di coppia. Una perdita affettiva cruciale come quella del partner (per non parlare della morte di un figlio) si verifica sempre entro un contesto relazionale specifico, contrassegnato dalla presenza più o meno significativa di altri affetti di supporto. L’eventuale mancanza di questi ultimi (come nel caso di rottura di un rapporto simbiotico, che abbia precedentemente isolato la persona dalla sua rete familiare e relazionale) interagisce pesantemente col trauma della perdita, diminuendo le capacità di fronteggiarla. Solitudine da perdita e solitudine da mancanza sono forse assai più dei costrutti astratti che non delle tipologie utili a interpretare le diverse realtà individuali.
Anche sul fronte dell’”amor mancato” (“Vorrei un compagno ma non riesco a trovarlo”) perdita e mancanza sono peraltro più intrecciate di quanto sia consuetudine intendere.
Mentre è ormai scomparso dal nostro vocabolario il termine dispregiativo di “zitella”, questa parola non è stata tuttavia sostituita da alcun termine political correct che concettualmente le equivalga. La qualifica di “single”, ormai così di gran moda, non identifica affatto una donna nubile di età adulta senza una relazione di coppia, quanto piuttosto una congerie di profili femminili che poco hanno a che fare con lo stato civile, nella misura in cui sono generalmente accomunati solo dal fatto di costituire una famiglia composta da una sola persona (ricomprendendo così nella categoria anche buona parte delle vedove, delle separate e delle divorziate – identificate come single di ritorno). Oppure si preferisce qualificare con questa parolina molto trendy le persone celibi e nubili di età adulta che non convivono con un partner, anche se magari sono rimaste a vivere con i genitori. Ma, soprattutto, l’attributo di single non distingue affatto tra la donna che ha uno stabile rapporto di coppia pur senza convivere col compagno, e quella che (sia vivendo da sola, sia vivendo con i genitori) non ha invece nessun partner. E ancora, l’etichetta di single fallisce nel differenziare una condizione stabile di assenza del partner da una situazione meramente transitoria, di semplice intervallo tra una serie d’importanti relazioni di coppia successive.
Focalizzarsi quindi sul binomio “single e solitudine” mi sembra improprio. Da qui la scelta di coniare l’espressione “donne in divieto d’amore” per individuare il profilo femminile che maggiormente tende a scontrarsi con il problema, indipendentemente dal fatto che la solitudine derivi da una perdita o dalla mancanza di affetti importanti, dall’assenza di un partner o dalla presenza di un partner inadeguato ai bisogni.
Va da sé che una condizione di assenza del partner (oggettiva, o finanche soggettiva – quando il partner c’è ma non colma il vuoto affettivo) tenderà a essere vissuta metaforicamente come “divieto d’amore” quanto più risulterà perdurante, indipendentemente dal fatto che derivi da una precedente separazione coniugale (perdita), da una storia d’amore interrottasi prima di approdare a matrimonio/convivenza (perdita), da una relazione di coppia insoddisfacente (mancanza), o dal fatto che non si sia mai sperimentato uno stabile rapporto di coppia (mancanza).
Perdita e mancanza finiscono di solito per intrecciarsi anche nel caso (più raro) in cui un partner sia davvero sempre mancato. Si tratta infatti di situazioni in cui, col tempo, si sviluppa una sorta di adattamento alla mancanza, generalmente compensata a livello affettivo dal protratto mantenersi di forti legami di dipendenza dai genitori (o da altro familiare di riferimento). Ma allora, anche in questi casi, sarà tendenzialmente proprio il sopravvenire di un'altra perdita – la perdita dei genitori, o di chi fungeva da loro sostituto − a costituire il fattore scatenante di uno scompenso che rischierà di essere tanto più grave quanto più ha faticato a svilupparsi in precedenza quella progressiva emancipazione dalle figure genitoriali che normalmente consegue al costituirsi della vita di coppia.
“Donne in divieto d’amore” è dunque una definizione che soprassiede sulla distinzione tra “amor mancato” e “amor perduto”, per soffermarsi esclusivamente sulla dimensione soggettiva del “Vorrei, ma non mi è concesso”, che accomuna tutte le situazioni in cui il vissuto di solitudine esprime un doloroso vuoto affettivo che richiede di essere colmato, quale che ne sia la causa.
Egler Ghinato
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STATISTICHE
Secondo i dati Istat dell'ultimo censimento generale della popolazione, nel nostro Paese il numero totale dei "single", intesi come famiglie unipersonali, è passato dai 5.427.621 del 2001 (29,4% del totale) ai quasi 7.7 milioni del 2011, stando a significare che in Italia quasi una famiglia su tre risulta ormai composta da una sola persona (31,2% del totale delle famiglie).
Questo è solo in minima parte attribuibile al lieve lieve incremento del numero totale dei vedovi (che ammontano attualmente a più di 4 milioni e mezzo), con 6 casi su 10 di ultrasettantacinquenni, per l'82,4% di sesso femminile. Invece, nell'arco dei dieci anni trascorsi dal censimento del 2001, è quasi raddoppiato il numero delle persone separate legalmente e divorziate, passando dal precedente milione e mezzo ai 2.658.943 del 2011. A questi "single di ritorno" vanno poi ad aggiungersi, indipendentemente dalla soluzione abitativa unipersonale o non, i quasi 13 milioni di uomini celibi e i circa 11 milioni e mezzo di donne nubili, per tre quarti al di sotto dei 35 anni.