La coppia spezzata

10.03.2015 00:00

Tradimento, abbandono e separazione costituiscono la triade di un lutto senza morte, che in una forma o nell’altra la maggior parte delle donne si trova a sperimentare nel corso della propria vita.

È sempre la perdita che si è costretti a subire contro la propria volontà quella che fa più male. Per questo, quando la coppia si spezza, vi è una differenza sostanziale tra “chi lascia” e “chi è lasciato”, sia in relazione al carico di sofferenza da affrontare sia riguardo alle risorse disponibili per fronteggiarlo.

Il caso delle separazioni coniugali è quello più critico e destabilizzante, in quanto la fine di un matrimonio viene a sconvolgere radicalmente non solo la sfera affettiva, ma anche un intero assetto di vita che trovava le proprie basi nell’unione coniugale, costringendo ambedue le parti ad affrontare drastici cambiamenti esistenziali su una molteplicità fronti (abitazione, condizioni economiche, lavoro, accudimento dei figli, amicizie, ecc...).  A livello di vissuto interiore, tuttavia, l’esperienza di tradimento/abbandono/separazione non riguarda solo le separate e le divorziate. Anche a prescindere dalle numerose coppie che scelgono di convivere senza contrarre matrimonio, viviamo in un’epoca in cui le donne si sposano sempre più tardi, i matrimoni durano in media 15 anni, e l’emancipazione femminile ha reso ormai una mosca bianca la donna che arriva all’altare senza aver mai avuto altro partner fuorché quello che sposa. In questo quadro è diventato consuetudine il fatto che nel corso della vita si susseguano diverse relazioni sentimentali, che iniziano di solito con gli amori dell’adolescenza e proseguono poi a catena – con o senza convivenze/matrimoni – con l’andar degli anni. Vista dunque la pluralità dei rapporti di coppia che normalmente si allacciano e si disfano dall’adolescenza alla vecchiaia, è abbastanza raro che si possa pensare di scampare sempre all’eventualità di un tradimento da parte del partner (spesso causa della decisione di lasciarlo, comunque come successiva scelta forzata) o a un abbandono voluto solo controparte.

Salvo che si decida di lasciare il proprio partner essendosi già trovate un sostituto, la fine di una storia d’amore (quella dei fidanzatini adolescenti, dei single che vivono ciascuno a casa propria, dei conviventi, dei fidanzati che progettano il matrimonio, o dei coniugi che si separano - con o senza figli) spalanca un grande vuoto affettivo, che è tanto più duro da fronteggiare quanto più il rapporto è stato intenso e/o di lunga durata. Lo spezzarsi del legame di coppia è sempre causa di profonda sofferenza emotiva per entrambe le parti, anche quando la separazione avviene consensualmente: si tratta comunque di un “noi” che si divide e che “muore” (il partner non è morto, ma è morta la relazione che si aveva con lui), sovraccaricando di recriminazioni, rimpianti, disistima, sfiducia e – tanto spesso – rancori. Quanto più saldo appariva il legame e improvvisa e inaspettata sopraggiunge la fine del rapporto, tanto più doloroso sarà il processo di separazione (indipendentemente da quanto il rapporto di coppia fosse davvero “felice”, poiché proprio i legami conflittuali e ambivalenti sono spesso i più difficili da recidere). La perdita del partner innesca quindi un’esplosione di vissuti di solitudine, depressione e rabbia, insieme all’inevitabile rimessa in discussione di se stesse, in un processo di elaborazione dell’accaduto che normalmente replica - anche se spesso con confini più sfumati - le classiche cinque fasi del lutto evidenziate dalla Kubler-Ross (1969): negazione/rifiuto, rabbia, negoziazione, depressione, accettazione.

La differenza tra “chi lascia” e “chi è lasciato” sta soprattutto nel fatto che la parte abbandonante tende a sperimentare queste fasi in anticipo – e spesso in modo compresso e fluido - rispetto alla rottura formale del rapporto, come se per lui/lei la relazione fosse da tempo già finita quando si arriva alla separazione. È, infatti, proprio la fase conclusiva (accettazione) di un  “lutto simbolico” tutto interiore quella che genera la decisione di lasciare il partner. “Chi lascia”, dunque, soffre soprattutto prima (la solitudine è già sperimentata entro il rapporto di coppia), mentre “chi è lasciato” soffre soprattutto dopo, a seguito del tradimento/abbandono subìto.

Quadri depressivi transitori e stati d’ansia si manifestano fisiologicamente nella persona che subisce l’abbandono, perché la fine di un rapporto di coppia su cui si era intensamente investito a livello affettivo e progettuale rappresenta non soltanto un cataclisma sul piano della vita materiale e relazionale, ma una profonda ferita a livello d’identità personale, che solo il trascorrere del tempo – al pari di quanto accade in caso di morte della persona amata – è in grado di rimarginare.

La frequente colpevolizzazione del partner – normalmente assente se la perdita è dovuta a morte - non allevia il vissuto depressivo, ma piuttosto lo complica con la possibile comparsa di idee ossessive e di propositi di rivalsa, vendetta e ritorsione, che, soprattutto nei casi di separazione coniugale, si traducono spesso in lunghe e dispendiose battaglie legali. Queste “guerre ad oltranza” - nelle separazioni giudiziali, ma anche nelle coppie di fatto, quando sono presenti dei figli -, oltre a incidere negativamente sui minori coinvolti, finiscono per procrastinare l’epilogo mantenendo forzatamente in vita il legame, sia pure nella forma della lite giudiziale.  Il processo psicologico di elaborazione della perdita ne risulta così ostacolato, perché le questioni legali irrisolte continuano a rigirare il coltello nella piaga, impedendo di giungere a quella fase conclusiva di accettazione che è la sola da cui partire per costruirsi una nuova vita.

Analogamente, anche forme eccessive di autocolpevolizzazione (non da ultima quella di essersi scelte il compagno “sbagliato”, con conseguente sfiducia nelle proprie capacità di riconoscere l’uomo affidabile, o traendo la conclusione che tutti gli uomini siano inaffidabili ), se non si attenuano con l’andar del tempo, rischiano di compromettere le possibilità di legarsi sentimentalmente a qualcun altro, consegnando l’interessata a una vita di solitudine affettiva all’insegna della disillusione e dell’amarezza.

I figli, quando ve ne sono, possono fungere inizialmente da compensazione al vuoto affettivo, distogliendo la donna dal desiderare un nuovo partner. Ma non di rado un’eccessiva dedizione materna da parte della donna separata (a discapito delle proprie esigenze relazionali, sessuali e sociali) rischierà di ritornarle a boomerang una volta che i figli saranno cresciuti, con una possibile “sindrome del nido vuoto”, non attenuata dalla presenza di un coniuge o di altre relazioni affettive importanti.

Come per il lutto in senso stretto (i.e, per morte della persona cara) anche il processo di elaborazione di una separazione si presta ad essere vissuto in modi diversi, che vanno dalle fisiologiche reazioni transitorie di sofferenza (anche molto profonda) e di destabilizzazione fino all’incapacità di superare la perdita nonostante il trascorrere del tempo, con una fissazione ad oltranza in una qualsiasi delle quattro fasi che precedono l’accettazione dell’accaduto. Queste possibili fissazioni risultano oltremodo pericolose, sia perché suscettibili di evolvere in veri e propri quadri patologici sia perché impediscono alla persona di far tesoro della propria dolorosa esperienza per trarne opportuni insegnamenti per il futuro.

Una fissazione nella fase della negazione/rifiuto rischia infatti di sgretolare il principio di realtà, producendo idee deliranti sul permanere della relazione di coppia nonostante l’avvenuta separazione, non di rado generando comportamenti di stalking passibili di denuncia. Allo stesso modo una fissazione nella fase della rabbia, oltre al possibile innesco delle liti giudiziali (ove ve ne siano i presupposti) e di comportamenti di ostilità e ripicca che finiscono per servirsi dei figli minori (ove siano presenti) come pedine di una partita a scacchi tra gli ex-partner, rischiano – all’estremo - di degenerare in veri e propri atti di violenza, come dimostrano gli innumerevoli casi di femminicidio che costellano i nostri notiziari. D’altra parte, anche una fissazione alla fase della negoziazione, come interminabile ricerca di risposte e spiegazioni che rendano conto dell’accaduto, finisce per bloccare la persona nel passato, sfociando spesso in idee ossessive e in controproducenti atteggiamenti di rimuginazione, che alla lunga isolano l’interessata dalle persone che la circondano (annoiate dal suo continuo ritornare sempre allo stesso tema). Infine, la quarta fasequella depressiva – è proprio quella che facilmente può incistarsi fino a evolvere in un disturbo depressivo vero e proprio, che nei casi estremi può portare fino al cosiddetto “suicidio per amore”.

In questo quadro, affinché lo strappo subìto non produca sulla persona danni maggiori di quelli comunque inevitabili, la scelta di ricorrere a un aiuto esterno - professionale e temporaneo –, fin dal momento in cui si percepisce la propria difficoltà a sopportare una lacerazione che risulta soggettivamente intollerabile, può servire a sventare l’incistamento patologico del processo, salvaguardando le possibilità che restano aperte per il futuro.

È pur vero che il sostegno ricevuto in questi frangenti da amici e parenti può in molti casi essere sufficiente, ma è altresì vero che proprio la fine di un rapporto di coppia – a differenza di quanto accade per i/le vedovi/e – tende a sollecitare negli interlocutori, spesso affezionati ad entrambi i partner, un’empatia meno incondizionata e più guardinga, che scivola non di rado verso i due estremi: “Te l’ho sempre detto che non era l’uomo per te!”, “Ma un po’ di colpa deve essere anche tua!”.

Proprio il frequente atteggiamento giudicante da parte degli altri fa sentire ancora più sola la donna che si separa/è lasciata dal proprio compagno, rendendole spesso difficile trovare nel proprio ambiente quel sostegno psicologico di cui ha bisogno in una circostanza così difficile. È dunque in questi casi che il Percorso Guidato qui proposto si offre come una forma di aiuto per meglio fronteggiare le difficoltà obiettive e favorire un processo di rielaborazione costruttiva della propria ferita. La peggior sfida di oggi è proprio ciò che diventerà la nostra forza e il nostro successo di domani. Perché tutti, prima o poi, subiamo un danno, ma la differenza sta nel rendersi capaci di sopravviverci.

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L'amore non muore mai di morte naturale. Muore di cecità, errori e tradimenti. Muore di stanchezza e deperimento, di appannamento. (Anaïs Nin)

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