Le solitudini da perdita: lutto e separazione

13.03.2014 00:00

Senza indulgere alla cavillosità, una certa attenzione meriterebbe comunque la distinzione tra il lutto, da un lato, e le altre forme di solitudine da perdita (es. per separazione voluta e per separazione subìta).

Il concetto di “solitudine da perdita” ingloba ovviamente il lutto, in quanto la morte rappresenta il modo più irreversibile con cui si può perdere una persona cara ed essere costretti a imparare a vivere senza quella persona e quella relazione. Ma l’irreversibilità non appartiene soltanto alla morte. Molte rotture di rapporto risultano di fatto altrettanto irreparabili, semmai con l’aggravio di non offrire l’immediata certezza della loro irreversibilità, trascinando invece inutili e dolorose speranze di riconciliazione. Piuttosto, il lutto si differenzia significativamente dalle altre forme di perdita  per come si manifesta normalmente l'imputazione della causa della propria solitudine. Sono infatti diverse le dinamiche che si innescano a seguito della morte di una persona cara rispetto a quelle che si sviluppano come conseguenza di un’esperienza di abbandono o di una risoluzione liberamente scelta della relazione.

L'altrui morte, non possiamo che subirla (attribuzione causale esterna). Forme di autocolpevolizzazione (attribuzione causale interna) sono possibili solo se sussiste una qualche ragione per pensare che si sarebbe potuto impedirla. Più spesso ci si sente soltanto "vittime" di un destino imperscrutabile (soprattutto nei casi di morte prematura), e gli altri ci confermano con le loro condoglianze il nostro vissuto. Se il decesso avviene per cause naturali, la fase della rabbia - che normalmente segue a quella della negazione - di solito investe prepotentemente tutto e tutti (il personale ospedaliero, Dio, gli altri), proprio per l'impossibilità d'identificare un "colpevole". Altrimenti, se la morte risulta in qualche modo "provocata" (es. incidenti, altrui errori o inadempienze, ecc...), la rabbia si canalizzerà contro il responsabile o i responsabili, veri o presunti.  

Invece, quando la perdita è causata da un abbandono, si spalanca un universo di devastazione interiore in cui rabbia e autocolpevolizzazione normalmente si sovrappongono, formando una miscela esplosiva di assai difficile gestione. La rabbia, in questo caso, è normalmente indirizzata verso la persona che ci ha lasciato – tradendo così la fiducia che le avevamo accordato – e insieme verso chi eventualmente sia considerato “colpevole” di avercela "portata via". Ma anche i sensi di colpa di solito non tardano a comparire (per aver fallito nella relazione, o per non aver saputo scegliere bene di chi potersi fidare). L’attribuzione di responsabilità continua cioè a oscillare tra i due estremi, esterno e interno, generando così un senso di profonda instabilità, che rischia di aprire una doppia voragine: quella sul fronte dell’autostima (per l’autocolpevolizzazione), e quella sul fronte della fiducia negli altri (“Di chi potermi fidare ancora, se mi ha tradito proprio la persona su cui contavo di più?”).

Le altre persone sono in questo caso di poco aiuto. Possono anche empatizzare col nostro dolore, ma di solito ci riescono  solo fino a un certo punto: vige infatti quasi indiscussa la convinzione che, in ogni separazione, la cosiddetta "colpa" sia equidistribuita tra le parti in causa. Questo fa sì che, mentre nel lutto possiamo solitamente usufruire dell'empatia e della sollecitudine di chiunque ci attorni, nel caso della "perdita per separazione" resti spesso un'ombra che pervade anche l'altrui partecipazione più genuina: quella di un dito accusatore silente, che ci invita comunque ad assumerci la nostra parte di responsabilità per la situazione in cui ci troviamo, anche se non l’abbiamo affatto voluta.

Nei casi di separazione, quello di un'indiscussa equiditribuzione delle "colpe” è  forse uno dei grandi miti della nostra società, che verosimilmente deriva da un delirio di onnipotenza proiettato su ogni individuo (“Volere è potere”). Non tutte le rotture di un rapporto di coppia avvengono, di fatto, per pari responsabilità delle parti in causa: magari mio marito è un pedofilo o uno psicopatico violento, oppure semplicemente un cinquantenne in crisi d'identità che ha un assoluto bisogno di trovare conferma della propria virilità in un nuovo effervescente matrimonio con qualche splendida ventenne.

In aggiunta, un rapporto coniugale o di convivenza comporta normalmente il costituirsi di una rete di "amicizie di coppia" (con altrettante coppie). Quando interviene una separazione, questa possibile rete di supporto finisce perlopiù col frantumarsi, proprio per gli attriti prodotti dalle inevitabili "alleanze"  (esplicite o implicite) che si producono a favore dell'una piuttosto che dell'altra parte in causa.

A differenza di quanto accade in caso della vedovanza (dove analogo problema può crearsi, ma solo per eventuali esigenze di convivialità, che richiedano la presenza di coppie piuttosto che di persone "spaiate", o comunque di chi non sia afflitto da uno straziante dolore), nelle separazioni è frequente il distribuirsi delle amicizie sui due opposti schieramenti, o perlomeno un imbarazzo relazionale che preclude in ogni caso un sostegno emozionale adeguato.

Infine, laddove siano presenti dei figli, la problematica della "perdita del coniuge per separazione" viene di solito aggravata dalla necessità (perlomeno ogni qualvolta questa necessità sia sanamente avvertita) di contenere la propria rabbia verso il coniuge fedifrago, per tentare almeno di non demolire presso i figli la sua immagine, spesso però solo col risultato di canalizzare su di sé tutto il loro astio, in quanto giudicate uniche responsabili della dissoluzione familiare.

La perdita - quando non sia per causa di morte – può quindi spalancare dissesti psicologici anche più gravi di quelli del lutto. Ma la sua specifica gravità è forse anche la sua più grande risorsa: il lutto richiede una dolorosa accettazione del fatto irreversibile, e solo di rado chiama in causa le nostre responsabilità; invece l'altro tipo di perdita  (rottura di rapporto, separazione) – spesso parimenti irrimediabile – mette sempre in discussione  tutto il nostro essere ("Ho sbagliato in partenza nella scelta del partner?", "Potevo forse impedire questo epilogo?",  "Quali alternative avevo?", ecc...).

La morte della persona amata ci può opporre crudelmente la fine precoce di tutte le nostre speranze, ma il responsabile di questo resta per lo più non identificabile (salvo nei casi di morte violenta, che non a caso abbisognano sempre dell'identificazione e della “punizione” del colpevole). Nella separazione appare invece quanto meno sospetta quale sia stata la nostra parte nella storia, e nel relativo epilogo. Il mondo è di gran lunga meno indulgente con le separate/divorziate rispetto a quanto non lo sia con le vedove. La solitudine che ne deriva è spesso, proprio per questo, più stritolante: un logorio interiore che non riesce quasi mai a trovare efficace compensazione negli altri possibili affetti presenti, anche perché doppie e contrapposte sono comunque le “voci interiori” che dilaniano (“È stata tutta colpa mia”, piuttosto che: “È tutta colpa di quel bastardo”). Così l’amica o il familiare che ci ricordi la nostra porzione di responsabilità viene inevitabilmente percepita come crudele e traditrice dalla parte di sé che inclina all'attribuzione di responsabilità esterna, mentre quell’altra amica che prende ciecamente le nostre parti non concede sfogo alla parte di noi che non è comunque capace di addossare al partner tutte le colpe, e tende invece ad autocolpevolizzarsi.

La morsa interiore è spesso angosciante, e fatica a trovare un aiuto efficace nella rete relazionale esistente. Un percorso guidato di sostegno può offrire in tutti questi casi un apposito spazio di sfogo ed elaborazione del conflitto interiore, in modo da meglio preservare  le altre relazioni esistenti (figli, familiari, amici) dal possibile tracollo, scongiurando il ritiro ad oltranza nella propria solitudine (v. Il Percorso Guidato).

Egler Ghinato

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Leggi: Il Percorso Guidato

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"Ho fatto giorni, bambini,

sfamato corpi e minuti d’amore,

sgorgato latte dai seni e dai bricchi

sulle soglie insistenti dei mattini.

Mi sono spaccata come una melograna

sui miei figli abortiti e i non nati.

Ho tentato

di trasformare in durata un incontro,

di abbracciare nell’uomo

la sua diversità."

       (Armanda Guiducci)

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