Paura di restare sola

28.05.2015 00:00

Paura di restare sola

La solitudine fa paura a molte persone, al punto che spesso si è disposti a pagare prezzi esorbitanti (in termini di disagio, insoddisfazione, umiliazioni, prevaricazioni – quando non di veri e propri abusi e violenze) pur di non affrontare il rischio di restare soli. 

Sono molte le donne disposte a mantenere e/o cercare di salvare a tutti i costi legami disfunzionali e palesemente insani, piuttosto che porre fine alla relazione, come se un rapporto profondamente infelice fosse comunque preferibile a quel vuoto affettivo che – almeno temporaneamente – verrebbe a crearsi con lo scioglimento del legame (v. Legami disperanti). Altre restano invece imbrigliate ad oltranza nella famiglia d’origine, quando - in assenza di un uomo da sposare o con cui convivere – faticano a compiere il “salto” psicologico ed evolutivo di andare a vivere per contro proprio, come single, o quando scelgono di tornare ad abitare con i genitori dopo una separazione o un divorzio (v.  La sindrome del bonsai ).

Sebbene in molti casi la mancata emancipazione dal nucleo familiare di provenienza o il mantenimento di una convivenza/matrimonio svuotati di ogni sostanza siano imputabili piuttosto a un concatenarsi di fattori obiettivi (mancanza di lavoro/lavoro precario, caro prezzi del mercato immobiliare, genitori che necessitano di assistenza, ecc…), resta vero che spesso –  almeno quando le risorse economiche permetterebbero il distacco – la scelta di restare con i genitori o con un convivente maltrattante (o comunque non più amato) suggerisce una difficoltà squisitamente psicologica a gestire la solitudine e il carico di responsabilità che questa comporta.

Autonomia e indipendenza sono conquiste di un Io sano ed evoluto, che è riuscivo a svolgere per intero - senza intoppi sostanziali - il proprio processo di individuazione (formazione dell’identità, sufficiente autostima, riconoscimento e accettazione delle somiglianze e delle differenze tra sé e l’altro, capacità di relazione e capacità di gestire la solitudine, ecc…). Marcati tratti di dipendenza (dagli altri in generale, o da un altro in particolare) sono il segnale che qualcosa è andato storto nella fase di strutturazione dell’identità. Le ragioni possono essere molteplici, e questi casi non sono infrequenti. La persona che guarda con terrore alla possibilità di trovarsi da sola in una casa vuota, che ha disperato bisogno di qualcuno che le faccia sempre compagnia a pranzo o a cena, che non può affrontare da sola un viaggio-vacanza, andare al cinema, a teatro, al museo, o sedersi al tavolo di un ristorante se non ha accanto un amico o un’amica con cui conversare, segnala comunque una problematica di dipendenza, che potrà magari passare a lungo inosservata a se stessa e agli altri, ma solo fintantoché non verranno meno le sue presenze di supporto.

Salvo che per le situazioni prodotte da specifici eventi traumatici successivi, questa problematica di dipendenza ha generalmente origine dalle relazioni familiari dell’infanzia: ribaltamento originario dei ruoli genitore-figlia (bambina che si trova a dover fare da “mamma” a padre o madre depressi, malati, alcolisti, tossicodipendenti, ecc…),  precoce “adultizzazione” della bambina (accudimento a suo carico dei fratelli minori o carenza di attenzioni a seguito della morte precoce di un genitore, conflitti familiari, separazione, ecc…), disconoscimento dei suoi bisogni (genitori superimpegnati nel lavoro, emotivamente assenti, ecc…) o “iperprotettività” commista a morboso attaccamento alla figlia (spesso a compensare carenze del rapporto coniugale), ecc…

Ciò che è mancato - o che è rimasta irrisolto - negli anni cruciali del passato continua , purtroppo, a far sentire le proprie richieste nel presente.

Lo spettro delle situazioni in cui il desiderio di sottrarsi a un rapporto fagocitante e/o distruttivo cozza contro la difficoltà di prendere la decisione risolutiva è tuttavia molto ampio e variegato. La paura della solitudine viene addotta solo di rado come ragione esplicita (i.e., consapevole) di impedimento alla risoluzione del rapporto frustrante e/o dannoso al benessere fisico e psicologico della persona.  I fattori che impediscono di attuare il distacco sembrano spesso esclusivamente di ordine esterno e materiale (scarsa o nulla autosufficienza economica, vantaggi socioeconomici derivanti dalla relazione/matrimonio, benessere dei figli, timore delle ritorsioni, rischio di reazioni violente della controparte, ecc…), ma non sempre è davvero così.

Condizioni di svantaggio similari possono spesso produrre effetti contrapposti per la persona (positivi vs negativi) a seconda di come avviene individualmente l’elaborazione delle strategie di coping (adattamento e superamento del problema) rispetto al disagio obiettivo. Così un’analoga storia familiare conflittuale produce in un caso la successiva ripetizione del copione precocemente interiorizzato ma in un altro può anche rappresentare la spinta a costruire un’unione coniugale fondata su basi più solide. Il nostro destino non è mai prescritto. Dipende solo da come riusciamo a utilizzare i vantaggi e gli svantaggi che ci sono dati in sorte. E non ci è mai imposto alcun termine per imparare a farne un uso migliore.

In molti casi è l’ambivalenza del legame a serrare il nodo che vincola inestricabilmente al rapporto disfunzionale, nel senso che la relazione viene mantenuta in vita nonostante le aspettative disattese, i tradimenti, i soprusi, o addirittura gli abusi e la violenza, non tanto per il timore di restare sole – in senso generale – quanto piuttosto per la paura di perdere quella persona di cui non si riesce più a fare a meno, e senza la quale la vita sembra perdere ogni senso (v. legami disperanti). La sottaciuta speranza è di solito quella che l’altro possa infine cambiare (o, più esattamente, la convinzione di essere in grado di cambiarlo).

Ma una problematica individuale di dipendenza (materiale, affettiva, o entrambe) attraversa sempre, in vario modo, queste situazioni - solo in apparenza così diverse tra loro. Che si tratti di trascinare matrimoni o convivenze nel compromesso della formula dei “separati in casa” – per il cosiddetto “bene” dei figli, o per sfuggire al possibile dissesto economico e ai disagi che deriverebbero da una separazione - o che sia in gioco piuttosto l’incapacità psicologica di emanciparsi da un legame affettivo che fa scontare a prezzi d’usura i rari e brevi momenti di felicità, in tutti questi casi troviamo sempre a monte qualche difetto nel processo di individuazione del Sé e nello sviluppo delle risorse di autonomia e indipendenza

A differenza degli alberi, costretti a restare dove hanno messo le loro radici, noi esseri umani godiamo della libertà di potercene andare, se non stiamo bene dove ci troviamo. Questo vale, tuttavia, solo in linea di principio. Nella realtà, sia vincoli di ordine materiale (incapacità/impossibilità di provvedere autonomamente a se stesse e/o ai figli) sia vincoli più profondi, di carattere squisitamente psicologico, mettono sovente le persone in una condizione paragonabile a quella degli alberi, o più esattamente di un prigioniero. Quest’ultimo, pur disponendo di due gambe che gli permetterebbero di fuggire, si trova costretto in una cella di cui non gli è data la chiave, alla mercé di chi l’ha imprigionato.

Salvo per i casi di cronaca nera (rapimento e reclusione effettiva), nei legami disperanti il vero carceriere non è mai, però, l’altro (i.e, quel partner che non si riesce a lasciare), per quanto minaccioso possa essere, ma soltanto quella parte dipendente di sé che non riesce a fare a meno dell’altro.

Come la nostra solitudine non si misura in base al numero di persone che abbiamo attorno, così la paura della solitudine diventa motivo per sopportare l’infelicità di una relazione, invece di interromperla, non tanto perché si teme di “restare sole” nel senso di “non avere più nessuno accanto”, ma perché si teme di non saper badare adeguatamente a se stesse o di non trovare più soddisfazione nella vita senza quella specifica persona che, in qualche modo, funge da stampella. Di solito non è dunque la paura di trovarsi d’improvviso in mezzo a un deserto ciò che impedisce di recidere il “legame disperante”, ma la paura di confrontarsi con il deserto che sta dentro di sé (vuoto affettivo), se viene meno la presenza di quel partner amato-odiato.

A trattenere nella relazione inappagante, disfunzionale, infelice è dunque in primo luogo la paura di restare sole con se stesse, laddove l’altro – per quanto frustrante, umiliante, squalificante, o assente per la maggior parte del tempo – ha comunque il merito di riempire un immenso vuoto interiore, che, senza quello stillicidio quotidiano di litigi, delusioni, prevaricazioni, ferite, rischierebbe altrimenti di inghiottirci.  Infinite storie di rapporti distruttivi, di pluriennali relazioni tormentate con uomini sposati che mai lasceranno la loro famiglia, di passionali relazioni con amanti che ci rovesciano su un letto ancora pregno del profumo di un'altra donna trovano nella nostra paura di confrontarci con la loro assenza (i.e., la nostra solitudine affettiva) l’unica ragione per cui continuiamo ad umiliarci e a elemosinare una briciola del loro amore.

Il Percorso Guidato di Gestione della Solitudine rappresenta dunque un primo passo di confronto con se stesse, per dichiarare la propria volontà di dire: “Basta!” a tutto questo, ed esplorare le altre possibilità che sono invece a disposizione.

 

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