Sentirsi sola
20.06.2015 09:55
Non occorre avere attorno a sé il deserto per sentirsi sole. Il vuoto affettivo può manifestarsi sia quando mancano le persone che potrebbero colmarlo (famiglia, amicizie, un partner…), sia quando la loro presenza fisica non basta a offrirci il sostegno emotivo della relazione e a farci sentire “accolte” nel profondo della nostra individualità.
È noto che l’essere umano può sentirsi immensamente solo in mezzo alla folla. Allo stesso modo i rapporti sociali più superficiali – quelli meramente convenzionali del contesto lavorativo, della vita sociale, o anche della propria rete di parentela – possono magari impegnare il nostro tempo, ma di solito non bastano a nutrire anche il cuore. Spesso, anzi, acuiscono il senso soggettivo di solitudine, proprio col grido della nostra anima, che silenziosamente protesta contro la maschera sorridente che tanto spesso ci prestiamo a indossare (nei social party, nei meeting di lavoro, nel rapporto con i nostri eventuali clienti, nei ritrovi con la parentela, ecc…) per proteggere – nascondendole – le nostre parti più profonde e autentiche, ma anche più fragili e vulnerabili. Perfino la persona in apparenza più istrionica e brillante (Falso Sé sociale) può nascondere nella propria interiorità un immenso deserto affettivo (v. il suicidio di attori comici famosi, come Max Linder, Alighiero Noschese, Robin Williams, ecc…). È il riproporsi della vecchia domanda: Chi fa ridere il clown?
A parte questo, la distonia interiore che possiamo sperimentare rispetto al nostro ambiente sociale (cerchia delle conoscenze) e/o relazionale (i rapporti più intimi) resta la fonte primaria di tutti i nostri vissuti di solitudine, perché il cuore non distingue tra “chi manca” semplicemente perché non c’è (in senso fisico) e “chi c’è, ma è come se non ci fosse”.
La questione è tuttavia più complessa di quanto non possa apparire al primo sguardo.
Una certa porzione di solitudine è inevitabilmente connaturata all’esistenza umana, ed è perfino salutare. Si tratta di quella solitudine esistenziale che ha fatto a lungo parlare i filosofi, e che, sublimandosi, ha prodotto i più grandi capolavori della nostra arte - nella letteratura, nella musica, nella pittura, nella poesia, ecc…
Anche per questo ho voluto intitolare questo sito: “donne in divieto d’amore” piuttosto che “donne sole”. La solitudine è un concetto che, nella lingua italiana, non distingue tra le due polarità: positiva (solitude, in inglese) e negativa (aloneness e loneliness, in inglese). Il “divieto d’amore”, per contro, rimarca in senso psicologico quel vissuto soggettivo a connotazione negativa (“divieto”) che contraddistingue tutti quei casi in cui la solitudine diventa disagio.
Non esiste Percorso di Gestione della Solitudine che possa liberarci dalla nostra porzione di solitudine esistenziale. Quello che invece un Percorso psicologico mirato al problema può fare è: dare a Cesare quel che è di Cesare, togliendogli tuttavia (e trasformando) ciò che non gli spetta. Può essere poco o molto, a seconda di come lo si guardi.
Qualsiasi tendenza a sviluppare con gli altri rapporti simbiotici (dove si perde il confine tra l’Io e il Tu) alla lunga si paga con delusioni feroci, che innescano vissuti di solitudine proprio nella misura in cui la rottura, che prima o poi interviene in questo tipo di rapporti, ci priva di quell’illusione di fusionalità (armonia perfetta) che funzionava così bene nel farci sentire visceralmente “allacciati” all’altra persona.
In un certo senso siamo davvero tutti irrimediabilmente soli in questo mondo. Nel momento della morte ci dovremo comunque confrontare col bilancio individuale della nostra vita (v. esperienze di premorte), e non ci potrà mai essere compagno che salperà con noi su quella barca che ci porterà al Tutto o al Nulla (o chissà dove, a seconda di quali siano le nostre credenze).
Soffrire, quindi, perché l’altro non legge telepaticamente il nostro pensiero (facendo, dicendo e comportandosi proprio come noi vorremmo), o perché nel suo percorso individuale di vita cresce in una direzione che lo rende diverso da noi, e magari lo allontana, è tuttavia una porzione di sofferenza aggiuntiva rispetto a quella della solitudine che comunque ci è data in sorte, in quanto “porzione” che deriva soltanto dalle nostre pretese irrealistiche – che tuttavia possono essere modificate.
Il Percorso di Gestione della Solitudine aiuta a distinguere la solitudine evitabile da quella inevitabile, e insegna a correggere o a minimizzare quest’ultima – in un modo che spesso da sole non riusciamo a mettere in atto.
D’altro canto, esiste una moltitudine di relazioni interpersonali che davvero non funzionano in maniera adeguata, e che per questo ci fanno sentire disperatamente “sole”, nonostante la presenza degli altri. Analizzare questi rapporti così insoddisfacenti e logoranti, per riuscire a trasformarli in una direzione che possa rispondere più realisticamente al “bisogno d’amore” dell’interessata, o - se il caso – recidendoli, per sostituirli con altri più “positivi”, può fare obiettivamente la differenza tra continuare a soffrire e cominciare a stare meglio .
Talvolta questo richiede un lavoro sulla coppia, ma non necessariamente. In tutti i casi in cui si tratta di una coppia mal-definita, e risulta non solo impossibile ma anche inopportuno un intervento congiunto su ambedue le parti (specie se il “problema” non è condiviso dal partner, che rifiuta di prenderlo in considerazione), restano solo due possibilità: 1) attendere passivamente una soluzione miracolistica del problema; 2) lavorare su se stesse per trasformare la situazione. Sono tutte quelle situazioni di coinvolgimento affettivo sbilanciato, a carico di una sola delle due parti: ad esempio, la donna che intrattiene una relazione frustrante con un uomo sposato, la trombamica perdutamente innamorata di chi si rifiuta di riconoscerla come propria “compagna”, ecc…
Cambiare gli altri è impossibile, ma esiste la possibilità di modificare l’effetto che gli altri ci fanno, nella misura in cui diventiamo capaci di cambiare noi stesse. Possiamo essere capaci di farlo da sole, ma non è necessariamente uno scacco cercare un aiuto esterno per riuscirci.
Il Percorso Guidato non promette la risoluzione del problema salvaguardando il mantenimento del rapporto “difficile”. Spalanca piuttosto ambedue le possibilità: 1) riaggiustare ciò che può essere riaggiustato; 2) lasciar andare ciò che non può essere salvato. Può, cioè, aiutare a fare l’una o l’altra delle due “cose” (così difficili, entrambe!), a seconda delle circostanze.
In secondo luogo, l’insoddisfazione affettiva può non riguardare soltanto un singolo rapporto frustrante (es. problemi col partner), ma una più estesa difficoltà a intrecciare con gli altri rapporti non meramente superficiali, o meno conflittuali, che colmino il proprio vuoto affettivo. In questi casi il Percorso Guidato aiuta a superare inibizioni, illusioni controproducenti, timidezze e/o diffidenze, permettendo di mettersi in gioco in nuove “sperimentazioni relazionali”, come in un tuffo nell’acqua reso possibile dal “salvagente” che è dato dal rapporto con la conduttrice.
Compito della conduttrice sarà infatti, in queste situazioni, quello di riattivare le risorse reazionali dormienti, correggerne le eventuali inadeguatezze, suggerire possibilità trascurate, e in ogni caso sostenere attivamente nella “fatica” e nella “sfida” del rimettersi in gioco (v. Percorso Guidato).